Il mobbing, se pur posto in essere nel solo ambito del rapporto lavorativo, può astrattamente configurare il reato di stalking se i comportamenti vessatori realizzano uno degli eventi previsti dall’art. 612 bis del cod. pen.
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 128/2022 ha condannato per stalking un datore di lavoro
che aveva reiteratamente minacciato alcuni sui dipendenti di “cementarli in un pilastro”, che li aveva invitati a confrontarsi fisicamente con lui, che li aveva esposti a pubblici ed umilianti rimproveri, e che li aveva sottoposti a procedimenti disciplinari culminati anche con il licenziamento, al fine di creare terrore tra di essi.
Secondo la Suprema Corte, il mobbing – e cioè (in estrema sintesi e senza alcuna pretesa di completezza) la mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti vessatori, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro – ha in comune con lo stalking la reiterazione delle condotte che, complessivamente considerate, risultano moleste e lesive dell’integrità psicofisica e della personalità della vittima.
Tali elementi comuni, confermano che il mobbing può anche configurare il reato di stalking di cui all’art. 612 bis del c.p, ove i comportamenti vessatori ingenerino nella vittima il perdurante e grave stato di ansia o di paura, il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, l’alterazione delle proprie abitudini di vita. Del tutto irrilevante e quindi il contesto entro il quale si realizza la condotta vessatoria, sia esso il luogo di lavoro o la vita privata.
La finalità persecutoria assume quindi una fondamentante funzione selettiva, nel senso che, affinché si configuri un’ipotesi di mobbing è sempre necessario che il lavoratore alleghi e provi che i comportamenti datoriali siano frutto di un disegno persecutorio preordinato alla prevaricazione. Perché invece si possa configurare il reato di stalking è necessario che i comportamenti persecutori voluti e reiterati siano astrattamente idonei, per la loro reiterazione e per le loro modalità, ad arrecare un vulnus alla libera autodeterminazione della persona offesa, determinando uno degli eventi previsti dall’art. 612 bis c.p., secondo cui, giova ricordarlo, «Salvo che il fatto costituisca piu’ grave reato, e’ punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi [pene aumentate di recente con la L. n. 69/2019, c.d. Codice Rosso, n.d.r.] chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita».
È importante rilevare che si tratta di fattispecie differenti che nascono in settori del diritto differenti tra di loro. La sovrapposizione semplicistica di una fattispecie del diritto penale (in questo caso, lo stalking) con una di diritto civile (nel caso che ci occupa, il mobbing) rischia di essere “scivolosa” e controproducente se non viene verificata caso per caso.
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